ALBANIA: TRA PASSATO DA DIMENTICARE E FUTURO DA COSTRUIRE

di Antonietta Sgobba

Si ha la sensazione di respirare una grande pace nel paesino di Nenshat, sede della Missione dei Frati Cappuccini a nord dell’Albania: un ambiente bucolico, case sparse nell’ampia valle racchiusa tutto intorno da una corona di monti che disegnano all’orizzonte profili lontani a vari livelli.

Dove sono le persone? Lungo l’unica strada asfaltata (appena da un anno) un carretto trainato da un asino, un gregge di pecore, una mandria di mucche e un piccolo mandriano a guidarle, ogni tanto un’auto. La campagna è rigogliosa intorno alla missione,un ombroso boschetto, orto, alberi da frutta, filari di viti, denotano il lavoro solerte di Padre Sergio. E’ il frutto dell’impegno di diciassette anni di missione.

In casa fervono li lavori, dopo diciassette inverni al gelo, forse il prossimo si starà un po’ più al caldo, grazie all’impianto di riscaldamento che Bernardino Sgobba, tecnico volontario, è andato ad installare. Ora tutto è funzionante e l’inverno al caldo è assicurato, spifferi permettendo.

Lavori importanti fervono nella nuova chiesa di San Michele, che sta sorgendo duecento metri più in basso dell’antica, riesumata dalle sue macerie all’inizio della missione e ormai del tutto insufficiente. Il regime comunista aveva distrutto le chiese o le usava come magazzini (vedi la cattedrale di Scutari), stalle o luoghi per usi civili. La gente, dopo la caduta del regime, quando si è ripreso il culto, assisteva alla messa seduta sulle pietre dei muri e della volta crollati, anche quando a Natale soffiava il gelido vento dei Balcani.

La nuova chiesa domina il villaggio, il bel campanile la connota da lontano. Padre Sergio,anche se architetto mancato, l’ha curata nei dettagli. La posizione è splendida: dalle ampie vetrate aperte ai quattro punti cardinali, la natura canterà il suo splendore al Creatore. Per ora i vetri non ci sono ancora e l’intonaco è solo esterno, ma il risultato più grande è stato quello di ottenere molto lavoro grazie all’opera volontaria di operai del posto. Un risultato che, in un contesto come quello albanese, va oltre l’immaginabile. Costretta a lavorare per 50 anni solo per il governo, dopo la caduta del regime, la gente non concepiva lontanamente di dover lavorare per qualcuno gratis. Pian piano, sta entrando nelle coscienze il sentimento di appartenenza del bene comune: la chiesa è di tutti, è della comunità, e sarà un orgoglio dire: io ci ho lavorato, ho contribuito a costruire la casa del Signore. La nuova Chiesa di Nenshat è l’ultimo, in ordine di tempo, dei numerosi  lavori effettuati da Padre Sergio in altre chiese, ad Hajmel e nei villaggi di montagna, nella casa delle suore, nell’ampliamento del Convento.

La domenica ha il respiro del giorno di festa, nella chiesetta di Nenshat la gente affluisce dalla valle assolata, non pensavo ci fossero tante persone! La chiesetta di S. Michele le contiene a stento. Sono vestite con l’abito della festa: le donne mature con il caratteristico abito tradizionale, pantaloni morbidi e casacca bianchi con giubbino e grembiule colorati, un foulard a bandana copre la testa lasciando sfuggire dai lati lunghe ciocche di neri capelli, le ragazze in pantaloni e maglietta attillati, scarpe con tacchi a spillo, i ragazzi tirati a lucido. La messa è partecipata, il canto corale, il silenzio assoluto durante l’omelia di Padre Sergio.

Grande opera incompiuta resta l’Ospedale di Nenshat, c’è tutto, dalle suppellettili alle incubatrici, e tutto fatto bene; manca la cosa più importante,, la gestione, il personale formato … troppo ottimistico il progetto? Occorre una sinergia d’intenti tra Cappuccini, Regione Puglia e Governo albanese. Questa carenza di personale e di formazione fa scaturire l’urgenza di offrire borse di studio a giovani albanesi capaci e volenterosi ma privi di mezzi. Fra Prela ci ha presentato il caso di Agostino, ragazzo volenteroso e capace, già al secondo anno di medicina, la prosecuzione dei suoi studi è legata all’elargizione di una borsa: occorrono  4.500 euro all’anno per donare un medico alla comunità.

Varie comunità di Suore cercano di fare il possibile per dare assistenza nella sanità, Suor Lorenzì delle Apostole dei Sacri Cuori di Chiara Merloni fa miracoli curando soprattutto le ustioni accidentali così frequenti. Ci domanda antibiotici, medicine di ogni tipo,che mette a disposizione dei pazienti nel suo dispensario. Le Suore Stimmatine coordinano e curano altri dispensari. Le suore Piccole Operaie dei Sacri Cuori a Scutari e a Piraj hanno istituito presidi fisioterapici, modello di efficienza in un contesto sociale privo di tutto, quale quello in cui operano, formando personale e installando strutture adeguate. Una realtà ed un’opportunità incredibile per portatori di handicap, ragazzi e adulti; genitori e parenti trovano stanze accoglienti per seguire da vicino e sostenere la terapia dei loro cari afflitti da patologie gravi. Suor Angelica, che a Scutari ci aveva mostrato il bel collegio per ragazze universitarie, coadiuvata dalle sorelle, veglia acchè tutto sia funzionante, in ordine, accogliente.

La Scuola dei Bambini Magjip a Scutari, curata da fra Angelo, ha visto concludersi un altro anno. Le pareti delle aule sono coperte di allegri cartelloni, segno che il lavoro è stato intenso. La direttrice è orgogliosa di mostrarci i quaderni degli alunni, anche il meno dotato ha voti sufficienti. Un bel traguardo per bambini che hanno come occupazione principale quella di chiedere l’elemosina, unica fonte di reddito per le famiglie. La scuola è diventata insufficiente, ci vorrebbe un’altra aula e un altro insegnante per la V classe. Penso che forse i ragazzi più grandi, ormai ben preparati e scolarizzati, potrebbero essere inseriti nella scuola pubblica e fruire delle attività di mensa e di sostegno scolastico della Scuola Beato Zeferino. La convivenza con altri bambini sarebbe un modo idoneo a inserirli nella società da cui sono spesso emarginati.

La missione in montagna

Venerdì con Padre Prela, Suor Teresa e Suor Marieta, Stimmatine, andiamo a conoscere la Missione in montagna. Per due ore la strada tortuosa si snoda tra verdi colline boscose. I villaggi risentono della triste edilizia del regime, case anonime a più piani, senza nessuna connotazione particolare. Dopo una strada sconnessa ed impervia, accanto alla chiesa, ecco la casa dei padri. E’ sorprendente anche qui come la sapiente mano di Padre Sergio abbia saputo trasformare un’austera canonica in pietra locale, in un’accogliente casa di montagna, dotata dei confort necessari, pur nella semplicità. Con qualsiasi tempo e in ogni stagione, una volta al mese, l’equipe missionaria affronta questo viaggio, un po’ impervio nell’ultimo tratto, per portare la Parola di Gesù alla popolazione di quei luoghi. Padre Prela, prima di celebrare nella parrocchia, si reca in una località vicina e dice messa in una cappella che ha trovato ospitalità in una scuola diroccata, ora abbandonata per mancanza di alunni. Una coppia anziana giunge da lontano, lui con le stampelle, hanno fatto un’ora di cammino per assistere alla messa. Avranno la gioia di abbracciare la figlia appena giunta per visitarli. Lei risiede a Tirana con la sua famiglia e gli altri quattro fratelli, hanno tutti studiato e ricoprono importanti incarichi di lavoro. I genitori non ce la fanno a lasciare le loro montagne: tutta la loro vita si è svolta in quei luoghi, come non capirli? Dopo la messa e il catechismo nella chiesa della parrocchia, la gente viene in casa per i saluti, una signora offre una forma di formaggio fresco e fragrante pane di mais ancora caldo. E’ un cordiale scambio di saluti, la gente è gentile e contenta della visita dei missionari e degli italiani venuti a visitarli, è un’occasione in più per praticare qualche espressione in italiano conosciuto forse in esperienze di migrazione o attraverso parenti emigrati. Infatti, una signora si avvicina a salutarci con un piccolino e, orgogliosa, ci dice: “Lui è nato in Italia, suo papà è italiano”. E’ bello questo scambio che crea  nuovi legami tra i nostri Paesi, sono passati i tempi in cui  il regime paventava  attacchi armati dall’Italia e dal mondo occidentale, per questa ragione aveva costruito migliaia di bunker.

Nel mese di luglio, ogni anno, i Frati e le Suore svolgono un mese di missione in montagna, vivono tra la gente, predicano il Vangelo. C’è tanta pace  in questo posto e tanta schiettezza nei rapporti con queste persone che la voglia di ritornare è grande!

Nel pomeriggio, fra Prela ci porta nel suo villaggio! Ancora strade impossibili, ruscelli scroscianti, prati fioriti,tornanti scoscesi, ma come faceva fra Prela a guidare in questi luoghi il camion d’inverno e con la neve quando, fino al 2000, commerciava in legname? Lui è il frutto della missione di Padre Sergio: è il primo sacerdote cappuccino albanese! Ha risposto alla chiamata al sacerdozio, quando Padre Sergio, all’inizio della sua missione, organizzò con altri sacerdoti una missione al popolo per annunziare il messaggio del Vangelo avversato dal regime per 50 anni. Giunse anche nel suo villaggio. “La prima volta non partecipai, racconta fra Prela, ma poi andai ad ascoltarlo…” E’ bello pensare che lo Spirito aleggia dove vuole, anche qui  tra montagne sperdute, vicino al confine col Kossovo, dove la storia ha scritto pagine forti e cariche di sofferenza. “Ora tutto è cambiato, racconta fra Prela, eravamo 300 ragazzi a scuola, ora sono forse dieci”. Le montagne si spopolano, prima la gente preferiva abitare luoghi lontani dal controllo del regime, o perlomeno dove il suo alito fosse meno pesante, ora due terzi della popolazione albanese vive a Tirana, la capitale li accoglie ma li assoggetta alle leggi del capitalismo, della competizione, del consumismo.

Ma dov’è il villaggio di fra Prela? Un piccolo cartello indica Flet, ma ancora una volta non un villaggio, ma solo case sparse nella valle: ”Laggiù, quella casa bianca è la mia casa, ma ora i miei sono tutti a Tirana” – dice fra Prela. Sbaglio, o c’è una nota di malinconia nella sua voce? Ma no! si rianima quando dice che della sua casa potrebbe fare un centro di accoglienza giovanile. Poi il suo sguardo si perde sui pendii, dove alberi novelli stanno sostituendo quelli che mani sacrileghe hanno bruciato. Tutti boschi intorno sono stati incendiati- dice fra Prela con mestizia- da chi voleva nascondere traffici illegali di legname. Nessun rispetto per la natura, un danno immane apportato alla ricchezza dei luoghi e della comunità montana..” Per fortuna non tutto è perduto, pian piano il bosco rinasce. Ci porta nella chiesetta della sua infanzia, anch’essa ristrutturata da Padre Sergio. Un Particolare interessante, anche i musulmani vanno lì a pregare davanti a un’effige della Madonna. Sullo spiazzo antistante, un piccolo cimitero chiuso da un cancelletto azzurro che si apre sul cielo, un posto magnifico per riposare.

Poco distante abita una famiglia amica di fra Prela, andiamo a visitarla. Il capofamiglia, impegnato nel campo, ci invita nel cortile, ci sediamo sotto candidi panni stesi, noto che è il costume tradizionale delle donne adulte. Sotto lo stesso tetto convivono quattro generazioni. I bisnonni e i nonni paterni, secondo il costume albanese, vivono col figlio primogenito. Una vera famiglia patriarcale, allietata da bei bambini biondi. I gesti dei giovani verso gli anziani sono rispettosi e questi sono affettuosi verso i piccoli. Ci offrono caffè e miele, nel giardino c’è una lunga fila di arnie. Un’attività redditizia quella del miele, a giudicare dal prezzo che ci propongono, ma plaudo all’iniziativa. 

Nel ritorno fra Prela nota sui prati una famiglia intera intenta a rivoltare l’erba, veramente vedo che le donne e i bambini lavorano più degli uomini. Fra Prela non resiste alla voglia di salutarli, pochi balzi sul pendio e stringe le mani a tutti, sono amici di famiglia, in quei bambini vede forse la sua infanzia, ma adesso che si è fatto seguace del Poverello di Assisi c’è una gioia diversa nello stringere quelle mani, E’ un ritrovare la propria gente con un entusiasmo in più, con il saluto di San Francesco in cui si racchiude tutto un programma di vita: La Pace e il Bene siano con te, un programma che è il suo e che è bello condividere.